Dalla Cina con furore

Mario Antoldi kungfu

Il mondo va in fretta; ci muoviamo quasi come degli automi senza prestare  attenzione ai nostri gesti, presi da una continua frenesia, da un tempo che riteniamo di  poter controllare e dominare, da un continuo confronto con gli altri.
Nella pratica delle arti marziali  tradizionali si seguono invece ritmi naturali, l’avanzamento avviene in modo graduale acquisendo via via  consapevolezza di ciò che facciamo, senza bruciare le tappe, senza fretta.
Da ragazzino mi ero avvicinato alle arti marziali attraverso varie esperienze. Avevo iniziato frequentando un corso di Judo e poi di Karate, dai quali appresi il rispetto del dojo (luogo dove si svolge la pratica), del maestro, degli altri judoka e karateka (praticanti di Judo e Karate). Imparai a condividere la fatica, il sudore e il sacrificio, indispensabili per poter apprendere e mettere in pratica  ciò che il maestro trasmetteva.
L’entusiasmo per quel mondo orientale fatto di inchini, regole, silenzio e duro allenamento svaniva quando mi veniva richiesto di sostenere delle competizioni con l’obiettivo di vincere; in altri termini dovevo affrontare un avversario e batterlo. Sentivo che questa regola, in me, era una forzatura, non mi piaceva gareggiare per vincere una medaglia o una coppa. In alcune occasioni accettai di confrontarmi sul piano agonistico e i risultati furono mediocri. Tuttavia dopo alcuni anni lasciai quell’ ambiente.
Rimasi distante dalla pratica marziale fino a quando mi imbattei in un volantino trovato a Udine per caso  – forse non era un caso – che pubblicizzava una scuola di Kung Fu e sul quale era scritto  in rosso “Dalla Cina con Furore”. Era l’inizio degli anni ottanta. Sebbene il titolo fosse un po’ fuorviante, il mondo asiatico  suscitava ancora in me un grande fascino, nel mio immaginario evocava mistero e saggezza, complici i vari film di Bruce Lee e racconti di eroi, di uomini saggi che sapevano fare con particolare maestria strani movimenti.
Iniziai così a frequentare gli allenamenti di un maestro cinese i cui insegnamenti mi appassionavano.
Nella pratica mi trovai a non dover competere col tempo né con gli altri compagni, ma ad avviare ed immergermi in una ricerca personale, a muovere i primi passi verso un mondo affascinante fatto di tecniche corporee complesse.

Mi venivano richiesti impegno e fiducia nel maestro che veniva da Hong Kong, praticavo le varie tecniche marziali e studiavo  la cultura cinese, sempre di più mi addentravo in quel mondo, nonostante il maestro parlasse solo il cinese e la comunicazione fosse estremamente ridotta.
Dopo una decina d’anni il maestro rientrò in Cina e  presi a seguire un maestro italiano che insegnava a un centinaio di chilometri dalla città dove vivevo. Il fatto di appartenere alla stessa cultura e di parlare la stessa lingua facilitò la comprensione di cose che prima mi erano sfuggite.
Seguii per alcuni anni gli insegnamenti di quel maestro, manifestando rispetto per la sua persona e impegno nell’apprendimento. Ad un certo punto la ricerca personale mi portò ad indirizzare l’ attenzione altrove e lasciai quella scuola.
Oggi mi trovo a essere parte di una scuola di kung fu tradizionale, a seguire e diffondere gli insegnamenti di un altro maestro cinese, in un’ altra veste oltre quella di allievo, quella di maestro.
L’attività didattica ha comportato per me l’avvio di un’altra modalità per accedere alla pratica delle arti marziali e alla filosofia cui si ispirano. Mi limito qui ad esporre uno dei principi che stanno alla base del mio insegnamento: è attraverso la pratica, basata sulla trasmissione diretta da maestro ad allievo, che si acquista consapevolezza di ciò che si fa; è difficile fare senza conoscere, ma è altrettanto difficile acquisire conoscenza senza fare.  Si tratta però di una conoscenza che va al di là della tecnica: dovrebbe condurre il praticante ad una migliore conoscenza di sé e ad una capacità di leggere con maggior chiarezza le manifestazioni della vita.