La storia marziale di Mario Antoldi

foto mario antoldi giovane
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Maestro un eterno principiante,

Mario un artigiano del gesto.

Da bambino iniziai a praticare le arti marziali, sollecitato dal babbo, poiché le riteneva utili alla mia educazione e allo sviluppo fisico.

Entrai in un Dojo, sala per la pratica delle arti marziali, e salii su un tatami, tappeto per attutire le cadute. Di cadute se ne facevano tante: sbilanciamenti, squilibri, proiezioni e, se non ero veloce a rialzarmi, la lotta proseguiva a terra fino a che non venivo immobilizzato, per diverse volte.

Un gioco, fatto di forza, di attenzione: cogliere il momento migliore per mandare a terra il compagno.  

Di caparbietà: continuare a rialzarsi ogni volta, ancora e ancora. Di rispetto: il  rispetto, tra noi ragazzi, sia per quelli che praticavano da maggior tempo, sia per le regole che davano un senso a tutto quello che si faceva.

Rispetto per il dojo e per il maestro.

Rispetto verso il maestro: la sua presenza discreta, sicura e autorevole, suscitava in me ammirazione e curiosità.

Ero affascinato da quello che non diceva, da una cultura diversa dalla nostra, dai suoi gesti e dai brevi aneddoti che raccontava.

Rispetto per il modo di relazionarsi: come facessimo parte di una grande famiglia.

Col passare degli anni, scelsi un’altra disciplina marziale.

Al contatto fisico, alla ricerca dello squilibrio, alle proiezioni a terra, si sostituirono le parate, i calci, i pugni, misurati e calibrati in ripetizioni combinate di varie tecniche a solo.

I combattimenti prevedevano la precisione dei colpi evitando di toccare il corpo del compagno, per non arrecargli danno.

In entrambe le discipline, provenienti dall’estremo oriente, c’era sia l’aspetto sportivo, agonistico, verso il quale provavo indifferenza che l’aspetto tradizionale per me molto più attraente, centrato com’era sul rispetto della storia e filosofia dalla quale era nata la disciplina, focalizzato sulla concentrazione nell’eseguire le tecniche e sulla presenza interiore.

Le modalità di rispetto erano le stesse: rispetto verso il luogo di pratica (dojo), verso gli allievi, le regole e verso il maestro.

Ciò che percepivo del maestro era la sua irraggiungibilità, una persona semplice pur essendo un insegnante di matematica.

La diversità di età, la sua bravura, il suo distacco verso noi allievi, la grande competenza tecnica, creavano una distanza incolmabile tra me e lui.

Diversi anni dopo, vista la mia preparazione e capacità tecnica, mi fu chiesto di partecipare a delle competizioni sportive: visto che ritenevo non avrebbero minimamente contribuito a placare la mia sete di conoscenza nei confronti di un oriente affascinante e sconosciuto, decisi di abbandonare la palestra.

Periodicamente iniziai a viaggiare in Oriente per attività commerciali, venni in contatto con tradizioni, usi e costumi di diversi paesi dai quali mi rifornivo di manufatti artigianali: mi piaceva molto contribuire alla diffusione della cultura e del pensiero orientale grazie alla mia attività.

La voglia di approfondire la cultura orientale e l’aspetto marziale con tutte le sue implicazioni mi rimase dentro: per appagarla mi ritrovai nuovamente a intraprendere un ennesimo percorso.

Una disciplina marziale dedita alla ricerca interiore, all’armonia, attraverso movimenti lenti e rilassati in uno stato di profonda concentrazione, con una particolare attenzione alla respirazione e alla calma mentale.

Il maestro veniva da Hong Kong, non parlava italiano: la sua vasta conoscenza comprendeva movenze corporee, lente o veloci, l’utilizzo di spade, lance sciabole e altre armi tipiche, per fortificare il corpo senza ferirsi, rompendo delle grosse pietre o spezzando delle lance. Era a conoscenza delle proprietà terapeutiche delle erbe, delle radici, dello scorrere dell’energia all’interno del corpo, sapeva come intervenire per aumentarne o diminuirne il flusso.

Era affascinante e misterioso, avrei desiderato capire quale era il suo segreto e, con la speranza di carpirglielo, iniziai a partecipare alle sue lezioni.

Inizialmente due volte alla settimana, poi tre, quattro, andavo da lui anche di sabato e domenica, ero determinato ed entusiasta, seguivo e facevo tutto quello che mi diceva.

Il desiderio di apprendere e progredire era forte, mi serviva sempre più tempo per allenarmi: lo sottrassi al lavoro e alla famiglia. Ogni momento era utile per fare, per praticare e assimilare, oltre alla pratica personale, presi a frequentare le lezioni del mattino e quelle della sera.

La dedizione totale, nella quale mi ero immerso, escludeva svaghi, vita sociale e in seguito anche quella familiare.

L’assiduo allenamento mi portò a diventare istruttore, e, con la supervisione del maestro, a insegnare.

Mi sentivo fiero di far parte della scuola e poter contribuire alla diffusione del kungfu, ma, come nelle migliori favole, un giorno, improvvisamente, il maestro ritornò a casa a Hong Kong, lasciando gli allievi privi di guida e provocando una frammentazione in piccoli gruppi.

Alcuni degli allievi presero ad allenarsi con me e, se questo da una parte mi lusingava, dall’altra metteva in luce l’incompletezza del mio addestramento, le carenze, la mancanza della fonte dell’insegnamento.

Dovevo in qualche maniera colmare quel vuoto, e come per incanto mi si presentò  l’occasione. Una cara amica mi fece conoscere un ricercatore, un uomo di cultura: dipingeva, disegnava, scriveva, raccontava storie incantate, e trasmetteva il frutto delle sue intuizioni. Un artista del gesto, un maestro in varie arti, in Italia, un pioniere nell’arte marziale.

Iniziai a frequentare un corso di formazione, diretto da lui con l’aiuto di altri insegnanti, in una città vicino alla mia.

Questo affabile e poliedrico maestro, che si esprimeva in italiano, mi permise di comprendere nuovi aspetti dell’arte marziale.

Le spiegazioni, i lunghi colloqui mi facevano intravedere un percorso diverso, rispetto a quello seguito fino al quel momento.

Le sue parole, i suoi racconti, il modo di affrontare la vita suscitavano in me meraviglia, curiosità e voglia di entrare in mondi reali o fantastici diversi da quelli da me conosciuti, strade nuove da percorrere.

Era diventato per me come un padre: il mio se n’era andato quando ero ancora giovane, lasciandomi un gran vuoto dentro.

Il coinvolgimento si fece dipendenza, lo assecondavo in tutto, lo imitavo, cercavo di esserne fedele copia, nel bene e nel male.

Persi lentamente di vista quello che era il mio reale interesse, la mia ricerca.

Durante il periodo di formazione all’interno della scuola istruttori, partecipavo con disponibilità e apertura nei confronti di altri insegnanti. Venni a contatto con altri maestri italiani e stranieri,  invitati a tenere lezioni: ognuno arricchì il mio livello di consapevolezza.

Mi resi conto dell’esistenza di modalità di approccio molto diverse rispetto alla marzialità: capii finalmente cosa realmente cercavo nell’arte e decisi di intraprendere un percorso personale.

Iniziai a seguire un maestro cinese, conosciuto anni prima, che viveva in Italia in una città lontana dalla mia, persona semplice, sincera, riservata, forte come una tigre.

Mi fece sostenere un esame per accettarmi nella sua organizzazione, riconobbe in me il lavoro svolto, le mie qualità marziali e mi conferì il grado di istruttore.

Questo riconoscimento generò in me un senso di gratitudine, che nutro tutt’oggi nei confronti del maestro, un senso di forte responsabilità rispetto ai suoi insegnamenti.

Iniziai da capo, mi rimisi in gioco: movenze, stili, forze, tutto nuovo o quasi, la didattica e la progressione, il lavoro interno e quello esterno al corpo per me erano nuovi, l’impressione era quella di aver fatto altro fino a quel punto.

Era ciò che cercavo: il kung fu, un kung fu vero, per me.

Di nuovo a capofitto a praticare, allenamento dopo allenamento. Ricostruire, mettere assieme i vari tasselli che compongono il mio odierno bagaglio, nuovi compagni di pratica, nuove dinamiche, nuovi modi di vivere la pratica.

Seguendo le lezioni, i vari stage del maestro, lentamente assimilavo e qualcosa dentro di me cambiava, tornava l’entusiasmo e la voglia di progredire, una nuova forza alimentava la mia ricerca.

Così, una decina di anni fa, una solenne cerimonia ha fatto di me un allievo interno, un allievo diretto.

Rappresentare il maestro, ora che lui è tornato a vivere in Cina, comporta una grossa responsabilità, nei suoi confronti, nei confronti dell’arte e degli allievi che seguono le lezioni.

Responsabilità che, con rispetto e umiltà, onoro mettendo tutto me stesso,

Trovarsi oggi ad essere chiamati Maestro, secondo le normative italiane, dopo decenni di vita dedicati alla pratica personale e all’ insegnamento, comporta un sacrificio, il sacrificio di sé.

C’è molto ancora da comprendere dell’arte, da sondare e sperimentare: quello che sono ora, lo devo a coloro dai quali ho carpito quello che potevo, a quello che ho trasformato per esprimerlo attraverso il mio esempio.

Poter essere d’aiuto senza attribuirsi meriti, in semplicità, indicare il percorso, una via, essere specchio che riflette le nobili aspettative di un apprendista ricercatore.

Un’opportunità che ho colto, un punto di partenza (la nascita), di sviluppo (la pratica) e di ritorno (alla vera natura originaria) attraverso un disegno circolare. L’essere e la vita si manifestano con il movimento che vivo totalmente, nella consapevolezza che molto ho da realizzare e che sarò sempre un apprendista, un maestro principiante.

grazie.

scritto da Mario Antoldi

Si ringrazia Jessica Agosti per la revisione